C’era una voltabears

 

“C’era una volta…” e il silenzio cala tutto intorno al narratore. Sin da bambini sappiamo che bisogna prestare la massima attenzione a ciò che segue quelle parole. E una volta adulti non siamo immuni a tale potere: quando ci viene raccontata una storia si attiva in noi qualcosa che alza immediatamente il nostro livello d’attenzione e allo stesso tempo ci rende più ricettivi a ciò che stiamo leggendo, ascoltando o guardando.
Oggigiorno siamo sommersi di informazioni, ma la memoria, così come il tempo a nostra disposizione, è limitata. Poco riesce a catturare la nostra attenzione, selettiva per natura: tutto è “già visto”, “già sentito” o non particolarmente interessante. Elenchi interminabili di caratteristiche tecniche, statistiche reali o fittizie, descrizioni altisonanti vengono sempre più spesso viste ma non guardate, sentite ma non ascoltate. Certamente non vengono ricordate o perlomeno non sono intrinsecamente persuasive, non importa quante ore si sono passate cercando di rendere giustizia a un servizio o ad un prodotto.

Se si vuole essere ascoltati bisogna essere abili storytellers, abili narratori. Lo storytelling è unapratica antica quanto la parola, quotidiana come il respirare. Migliaia di anni fa, prima ancora della scrittura, l’uomo tramandava la sua conoscenza di generazione in generazione raccontando storie, e, ancora oggi siamo impegnati in uno scambio costante di storie. Review, blog, social networking sites sono i protagonisti di un’era digitale incentrata sull’esperienza: la narrazione ha acquisito un ruolo ancora più centrale con l’avvento del Web 2.0.

Lo storytelling instaura una relazione tra narratore e chi ascolta, suscita emozioni. Non si tratta di una comunicazione dall’alto, che punta alla trasmissione nozionistica di informazioni più o meno rilevanti per l’interlocutore, ma si tratta di una co-costruzione simbolica di significati: tutti hanno delle storie e una particolarità delle storie, secondo la scrittrice e filosofa Hannah Arendt, consiste nel trasmettere un significato senza commettere l’errore di definire quale sia.
L’interlocutore, basandosi sulle sue storie, interpreta quelle degli altri e reagisce ad esse.

La memoria, si sa, è fallace, ma è straordinariamente raffinata quando si tratta di ricordare come ci siamo sentiti in un determinato momento. Le emozioni possono poi influenzare giudizi ed azioni.“Penso che usando un aneddoto si risparmino molte parole” disse il presidente americanoRonald Reagan, e aveva ragione: perché annoiare gli elettori con una serie di programmi nei confronti dei quali possono avere opinioni discordanti quando si può raccontare loro una storia, un mito, che li ispiri indipendentemente dalle loro convinzioni personali? Reagan fu eletto presidente perché all’America piacquero le sue storie, il suo mito, anche se non tutti erano d’accordo con la sua politica.

Chi si occupa di marketing sa come sia difficile comunicare un messaggio discordante con le credenze dell’interlocutore. La pubblicità? Alla maggior parte delle persone molto probabilmente non piace, anzi dà fastidio. Un nuovo prodotto o una nuova azienda? La gente è scettica, preferisce ciò che già conosce, ciò che ha già provato. Aumenta la quantità di prodotti e servizi disponibili per il consumatore, ma non per questo aumenta l’originalità e la differenziazione dell’offerta. Vengono quindi erette delle vere e proprie barriere che respingono tali informazioni, lasciandole in background, dove andranno a comporre unasorta di brusio indiscernibile.

In linea generale, nei migliori dei casi l’esposizione di dati e fatti porta a ciò che gli Inglesi e il marketing definiscono awareness, alla notorietà e all’attrattività più o meno marcata; mentre l’emozione implementa l’azione.

Così come in politica, anche nel marketing diventa sempre più necessaria l’attuazione di una strategia di contenuti che punti al coinvolgimento emotivo dell’interlocutore raccontandogli, perché no, la propria storia.

Raramente si è ispirati dai dati empirici, dalle pesanti presentazioni PowerPoint o dai grafici; secondo gli psicologi le storie sembrano essere più persuasive delle argomentazioni appositamente studiate per tale scopo. Un messaggio esposto sotto forma di narrazione rende il suo significato immediatamente percepibile, facilmente ricordabile ed altamente emozionale, superando le barriere degli interlocutori, facendo in modo che il messaggio spicchi dal “brusio di sottofondo” in cui siamo quotidianamente immersi e lasci un segno.

Andrea Fontana, esperto di corporate storytelling, sottolinea come non sia più sufficiente un management ben preparato e creatività, ma anche e soprattutto “un’autobiografia aziendale progettata, focalizzata e raccontata cross-mediaticamente”. Affinché la propria azienda si distacchi dallo sfondo per assumere un ruolo di protagonista nella mente dei clienti, è quindi necessario rivestire i panni dell’abile storyteller, che catturi l’attenzione e il cuore di chi ascolta con un semplice “c’era una volta”.

← Torna indietro