Cosa significa celebrare l’8 marzo quest’anno?

– a firma dell’Avvocato Alessia Sorgato –

8-marzo

 

Possiamo dirci soddisfatte e tranquille sul fronte della sicurezza, della tutela dei diritti delle donne, sui passi compiuti nella nostra direzione dal legislatore, dai giudici, dalle forze dell’ordine italiane?

Secondo la Convenzione di Istanbul il raggiungimento dell’uguaglianza di genere de jure e de facto è un elemento chiave per prevenire la violenza contro le donne, quella manifestazione dei rapporti di forza storicamente diseguali tra i sessi che hanno portato alla dominazione sulle donne e alla discriminazione nei loro confronti da parte degli uomini e impedito la loro piena emancipazione.

 

Maltrattamenti, stupri, stalking; quante sono le forme della violenza sulle donne?

La fantasia dell’uomo violento non sembra conoscere limiti: ne abbiamo la riprova ogni volta che apriamo un giornale oppure – come nel mio caso – il fascicolo di un nuovo processo penale, scaturito dalla denuncia di una donna.

La giurisprudenza italiana ha da tempo dovuto fare i conti con l’evolversi – in senso ingravescente – dei comportamenti criminosi – anche endo-famigliari – ed ha giocoforza dovuto adattarvi le norme del nostro codice penale, che risale al 1930.

Fortunatamente l’Italia fa parte di organi sovranazionali e pertanto è obbligata a ratificare le convenzioni internazionali che – a proposito di violenza su donne e bambini – sono numerose ed estremamente aggiornate.

Fra il 2012 e l’ottobre 2013, quindi, grazie all’esecuzione dei Patti di Lanzarote ed Istanbul, anche il nostro Paese ha riformato le norme previgenti, adattandole alle manifestazioni di violenza più recenti che, accanto ai maltrattamenti, alla violenza sessuale ed agli atti persecutori (o stalking, mutuando il termine dal linguaggio della caccia anglosassone, dove significare letteralmente <fare la posta alla preda>) annovera nuove forme di aggressione.

La più rilevante si definisce violenza assistita e concerne i casi in cui il bimbo non viene malmenato personalmente, ma osserva la propria mamma vittima di vessazioni ed angherie, e questo lascia un’impronta indelebile sul suo sviluppo.

Altro delitto di recente introduzione è quello di mutilazioni genitali femminili – costume atroce “importato” anche nel nostro Paese dai fenomeni migratori.

Più in generale, è la stessa interpretazione giurisprudenziale delle fattispecie di reato già esistenti a dover riconoscere forme di maltrattamento diverse dalle botte: angherie psicologiche ed economiche come forme di violenza alla integrità psico-fisica della donna che le patisce.

 

Dopo una lunga attesa durata otto anni, l’Istat ha pubblicato nel giugno scorso i dati aggiornati sulla violenza domestica, che sono ancora allarmanti: quasi 7 milioni di donne che vivono sul nostro territorio ha subito molestie, sopraffazioni fisiche e psicologiche, violenze sessuali.

In quel rapporto si legge che aumenta la fiducia nelle agenzie di controllo, la gratitudine e la stima nel loro operato: credo si stia sviluppando una vera e propria cultura contraria la violenza in ambito domestico e sentimentale, che incomincia nel momento in cui si smette di considerarla “un affare di famiglia” e si riconosce che rappresenta un delitto gravissimo.

Ma la cronaca dei primi due mesi del 2016 riporta tuttora un bollettino di guerra. Sono morte molte donne per mano dei loro mariti ed ex fidanzati, altre sono rimaste gravemente ferite, segno che ancora quel che si è fatto in questo ambito non basta.

Abbiamo il dovere di informare le donne, sin dal primo approccio, su quali e quanti siano (diventati) i loro diritti: sapere subito che si può accedere a strutture di supporto psicologico e disporre di un proprio legale di fiducia (il più delle volte in gratuito patrocinio) può dare quella carica che le serve per dire <Adesso basta>.

Bisogna puntare su informazione corretta, presa in carico immediata e assistenza legale qualificata.

Abbiamo tutti la maniera, prima o poi, per accorgerci che una donna, accanto a noi, sta subendo delle violenze: può essere una collega, una compagna di scuola, la vicina di casa. Possiamo notarle addosso dei lividi, uno sguardo spento, un improvviso calo del rendimento, oppure possiamo sentirla che piange, che grida “Basta”, che implora “Non mi chiamare più, è finita, rassegnati!” e poi ha paura ad uscire la sera.

Possiamo allora parlarle di centri antiviolenza, di sportelli anti-stalking, di ospedali all’interno dei quali esistono presidi specializzati nella rilevazione dei maltrattamenti, che forniscono sostegno psicologico, che contribuiscono a indirizzare verso le case rifugio.

E possiamo chiamare noi le forze dell’ordine, chiedendo interventi urgenti, se la vittima non è in grado o – paradosso tutt’altro che raro – non vuole denunciare il suo aguzzino per un mal-interpretato bene dei figli, per paura di perdere il permesso di soggiorno, per necessità economica.

La stampa e certi programmi tv fanno grancassa alla tragedia, riportano soltanto i casi di cronaca, quelli in cui “ci è scappata la morta” e questo perché i successi non fanno notizia: è pressoché impossibile aspettarsi che ci informino se una donna è stata salvata eppure sono tante le persone, in Italia, la cui vicenda di dolore e prevaricazione si è conclusa positivamente, grazie al lavoro di rete che tutti noi, impegnati in questo campo, svolgiamo in silenzio e lontano dai riflettori.

Ma perché allora alcune scampano e ricominciano una vita serena ed altre soccombono?

Fatalità, destino, incompetenza di chi era chiamato a proteggerle oppure inconsapevolezza dei propri diritti, incapacità di farli valere?

Tutto questo ed anche altro però una cosa è certa: io faccio l’avvocato penalista da diciotto anni e da sei mi sono specializzata nella difesa di vittime di violenza domestica, collaborando con associazioni, ospedali e centri antiviolenza. Non c’è stata volta in cui la donna, finalmente entrata nel circuito di protezione fornito da questi Enti, finalmente consapevole degli strumenti che la legge offre alle vittime per informarsi, difendersi, attivarsi, non mi abbia detto: ah, l’avessi saputo prima.

Ecco, questo è l’augurio che dobbiamo farci per questo 8 marzo: che tutte sappiano, col il dovuto preavviso, che ad uno schiaffo non segue un fiore, che un corteggiatore troppo insistente può arrivare a incutere paura, che un manesco non cambia se gli diamo un figlio … e sappiano cosa fare per fermarlo o, quanto meno, dove rivolgersi per farsi aiutare.